Dalla città di Itajai tutti gli emigranti si dividono; Alessandro ed un gruppo di emigranti bergamaschi (tra i quali appunto le famiglie Morelli e Maestri) iniziano a risalire il fiume che attraversa questa città, il rio Itajai, attirati nella regione grazie ad una legge del Governo che concedeva ai coloni appezzamenti di terra da coltivare e giungono nella zona dove oggi sorge la città di Brusque.
Arrivati qui si rendono conto che i lotti di terra migliori erano già stati assegnati alla comunità tedesca e che a loro non rimane altro che i terreni circostanti ricoperti da quello che in Brasile viene chiamano il “mato”, una foresta rigogliosa e inesplorata attraversata dal rio Itajai-Mirim. I migranti rimangono inermi di fronte a questa amara sorpresa e a questo punto, con i loro sogni ormai infranti tutti vengono presi dal più cupo sconforto e non sanno più cosa fare…
Pare che si siano fermati parecchi giorni a Brusque, forse addirittura un mese, alloggiati in una baracca in Rua de Carreiras nella località oggi chiamata “Águas Claras”. Alessandro si arrangia come può pur di racimolare qualche soldo per sfamarsi, arriva addirittura a girare per le strade vendendo fiammiferi!!!
Questo non è assolutamente quello che Alessandro si aspettava e la situazione inizia a prendere decisamente una brutta piega; dopo tutte le fatiche fatte si ritrova in una situazione addirittura peggiore rispetto a quella che aveva lasciato in Italia ed è proprio per questo che, insieme al piccolo gruppo di emigranti bergamaschi, prende la decisione più rischiosa ma a conti fatti più saggia: dopo un consilto il gruppo decide di proseguire il viaggio e, comprati macheti e canoe, riprendono a risalire il fiume. Si fermano solo quando si trovano nel punto in cui il fiume in una grossa ansa si incontra con il piccolo ruscello attualmente denominato “Rio Riberão Porto Franco”.
Proprio alla confluenza tra i due si trova una piccola spiaggia che si presenta loro come l’unico luogo sicuro dove attraccare le canoe. Da qui partono a piedi per esplorare la regione ma mentre sono in perlustrazione vengono investiti da un violento temporale con piogge molto forti che in breve tempo gonfiano e fanno esondare tutti i fiumi. Gli esploratori ritornano subito alle imbarcazioni, preoccupati di non ritrovare più i loro unici mezzi di trasporto invece, con grande sorpresa e gioia, vedono le loro barche che girano sull’acqua nel punto in cui erano state attraccate!!!
Da questo momento i pionieri decidono di fermarsi e stanziarsi in questo luogo, iniziano a costruire un primo nucleo di case – ovviamente capanne di legno – cui viene dato il nome proprio di Porto Franco (traduzione dal bergamasco “porto sicuro”) ed oggi si chiama Botuverà (parola indigena in lingua Tupi-Guarani che significa “Pietra Preziosa” o “Montagna Brillante” – nome che trae origine dall’esistenza di varie miniere di oro e metalli preziosi presenti nella zona).
Un’altra versione dell’odierno nome di Botuverà è raccontata da un cugino di nome Evido Antonio Bonomini il quale racconta che suo nonno Jasè Andrè Maestri, marito di Albina Tirloni quindi genero di Alessandro, diceva che il nome Botuverà deriva dal nome che gli indigeni davano ad una mosca conosciuta come “Butuca” e che infestava tutta la zona di Porto Franco.
Ogni famiglia si procura un posto in cui vivere, delimita un’area di sua proprietà ed in seguito questo primo nucleo viene raggiunto da altri immigranti e poco tempo dopo la sua fondazione Porto Franco diventerà un nucleo abitato da circa 500 persone che man mano colonizzeranno altre località tutte dislocate lungo la valle del Rio Itajaí-Mirim (Águas Negras, Ribeirão do Ouro, Lageado, Gabiroba ecc ecc).
Non si sa con certezza quali famiglie arrivano inizialmente in questa colonia. Ascoltando i racconti degli anziani (discendenti diretti dei pionieri) e facendo accurati studi sulla scarsa documentazione disponibile (per lo più si tratta di archivi parrocchiali ora portati a Florianopolis) si è potuto stabilire che tra i primi pionieri c’erano circa 33 persone ma non è da escludere che ci fossero anche bambini; i loro cognomi erano: Aloni, Bettinelli, Bonomini, Bósio, Comandolli, Dognini, Gianesini, Maestri, Molinari, Morelli, Pedrini, Raimondi, Rampelotti, Tomio e Tirloni.
Questi dati sono riportati dal comune di Botuverà quindi è stata ufficializzata la tradizione orale che si tramanda in famiglia fino ai giorni nostri e che vuole il nostro avo Alessandro tra i primi pionieri, tra quei pochi impavidi che hanno sfidato le insidie di un territorio sconosciuto e si sono spinti fino alla piccola spiaggia sicura sul rio Itajai-Mirim per fondare questa colonia in cui tutt’ora si parla un dialetto bergamasco stretto composto ancora da termini ottocenteschi ormai spariti dall’odierno dialetto della nostra provincia di Bergamo.
Per un certo tempo nessuno dell’odierna Brusque sente più parlare dei coloni bergamaschi che avevano iniziato a risalire il fiume dentro nella foresta e addirittura si pensa che siano tutti morti magari vittime degli animali e della natura o, più probabilmente, uccisi dalle popolazioni dei “Bugres” (= gli indigeni autoctoni, chiamati così con voce dispregiativa) invece i pionieri riescono, a prezzo di molta fatica ed anche di spargimenti di sangue, ad avere la meglio su tutto e tutti.
A questo punto va aperto un capitolo non certo decoroso per la nostra storia proprio relativo al rapporto con gli indigeni. Soprattutto nei primissimi tempi gli scontri tra i pionieri e gli indigeni sono praticamente continui; queste popolazioni autoctone sono stanziali o comunque migrano in un’area non molto grande e ovviamente non tollerano la presenza dell’uomo bianco nei loro territori e cercano di cacciare in tutti i modi quelli che effettivamente sono degli invasori.
Inizialmente i pionieri cercano di “ragionare” con gli indigeni ma non è per niente facile poiché, stando ai racconti tramandati, da principio non erano particolarmente cattivi e non cercavano subito di uccidere ma erano decisamente bellicosi quindi i tentativi di intese vengono praticamente subito sorpassati dalle minacce armate.
Un racconto tramandato ancora in data attuale da un vecchio zio tuttora residente a Botuverà – Dorval Luis Maestri, figlio di Albina Tirloni e quindi nipote di Alessandro – narra con una lucidità ed un’enfasi impressionante di come i primi coloni, stanchi dei continui assalti degli indigeni e delle morti che provocavano, ad un certo punto hanno deciso di risolvere il problema in maniera definitiva: hanno formato un gruppo armato di pistole e macheti, che è entrato nella foresta e per 8 giorni ha seguito le tracce degli indigeni nella speranza di trovare il loro accampamento.
Durante questi giorni di ricerca il gruppo è restato in assoluto silenzio, mangiando il meno possibile, senza fumare (a quel tempo tutti gli uomini fumavano un’erba chiamata “cachimbo”) non ha nemmeno acceso i fuochi di notte per non farsi scoprire dagli indigeni (“sensa bocà, sensa mangià e sensa pipà” racconta lo zio Dorval). Passati appunto 8 giorni hanno trovato nel cuore della foresta un grandissimo accampamento in cui in una sola gigantesca capanna era radunato un intero villaggio di indigeni; il gruppo di coloni ha aspettato che calassero le tenebre, tutti dormissero e solo a quel punto, sempre in silenzio, sono entrati nella capanna e con i macheti hanno tagliato la gola a TUTTI (“i ga pasat toti a fil de lama” racconta lo zio Dorval che da giovane aveva conosciuto l’ultimo reduce di questa spedizione), uomini, donne, vecchi e bambini; si racconta che il sangue arrivasse fino alle ginocchia… Ovviamente è esagerato ma rende l’idea della carneficina compiuta.
Da questa mattanza si sono salvati solo una giovane donna che era sveglia per allattare i suoi due bambini; il gruppo di pionieri non ha avuto il coraggio di uccidere una inerme mamma ed i suoi bambini che li guardavano terrorizzati. La donna ed i bambini sono stati portati via con l’intento di integrarli nella comunità ma purtroppo la donna ed in un secondo momento anche uno dei bambini sono stati uccisi quasi subito perché si ribellavano ai coloni.
L’altro bambino, il minore dei due, invece era di carattere più mansueto e remissivo; è stato portato a Porto Franco, si è integrato nella comunità, ha creato la sua famiglia ed è vissuto a lungo morendo di vecchiaia negli anni ’60. Tutta la comunità di Brusque conosceva la storia di questa persona poiché era diventato famoso nella zona grazie alle sue capacità calcistiche messe a frutto nella prima neonata squadra calcistica della città di Brusque.
Non si sa se Alessandro abbia fatto parte di questa missione punitiva; lo zio Dorval sostiene che è possibile poiché Alessandro era uno tra i giovani della comunità, aveva un carattere decisamente forte e probabilmente non si faceva molti scrupoli quindi era la persona ideale per una missione di questo tipo…
Il problema degli assalti da parte degli indigeni non si può certo dire definitivamente risolto con questo episodio; I racconti tramandati in famiglia e le cronache del tempo narrano di cruenti scontri avvenuti anche molti anni dopo questo tremendo evento. Alla fine degli anni ’40 il mio bisnonno Emanuele Tirloni raccontava come anche ai suoi tempi – quindi all’inizio del Novecento – capitava di incappare nelle tribù dei nativi e bisognava combattere contro di loro (“ghera de combat contra i Bugheri” raccontava con enfasi storpiando il nome). Volente o nolente l’uomo bianco restava comunque l’usurpatore della loro terra quindi era un avversario da eliminare.
Le cronache di Porto Franco narrano dettagliatamente anche la brutalità dei Bugres quando attaccavano; si nascondevano in mezzo al mato ( la foresta) restando immobili per ore a studiare i movimenti dei coloni poi li bersagliavano con raffiche di frecce che non lasciavano scampo ai malcapitati. Non facevano distinzioni tra uomini, donne o bambini e soprattutto, una volta uccisi, i corpi dei malcapitati erano oggetto di un “rituale” di una barbarie assolutamente incredibile: alla vittima venivano tagliati i polsi e le caviglie (o addirittura mozzate le mani ed i piedi) per fare sgorgare tutto il sangue poi il corpo veniva fatto a pezzi e portato via dagli indigeni come trofeo.
Questo soprattutto accadeva quando i coloni provocavano gli indigeni aizzandoli e deridendoli. Purtroppo accadeva anche questo; i coloni erano armati di pistole mentre gli indigeni avevano solo arco e frecce (forse avvelenate) e quindi, in una situazione di superiorità d’armi, i coloni si sentivano protetti, diventavano sprezzanti e provocavano gli indigeni. Soprattutto questo era il motivo scatenante della furia indigena, questa gente non andava assolutamente provocata ma i pionieri non volevano saperne e ne pagavano inesorabilmente lo scotto!!!
Personalmente sono portato a credere che il bisnonno Emanuele non appartenesse a quella schiera di persone che provocava gli indigeni sentendosi forte della sua arma da fuoco, sono più propenso a credere che si trattasse di combattimenti – sicuramente cruenti – accaduti semplicemente perché il bisnonno aveva la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Ovviamente non tutti gli indigeni erano uguali e non tutti i coloni erano così stupidi da provocarli infatti si narra anche di molte occasioni in cui nella stessa Porto Franco l’autentica amicizia tra i coloni ed i Bugres fosse cosa ordinaria tanto da arrivare ad avere alla stessa tavola indigeni e coloni. C’era da sperare di trovarsi di fronte l’indigeno giusto ed ovviamente agire in maniera buona o, quanto meno, diplomatica per fare in modo di non provocarlo. Purtroppo non accadeva sempre così ed il prezzo da pagare in termini di sangue è stato alto da ambo le parti.
Nonostante si vedano costretti ad affrontare questo difficile problema di relazione con le popolazioni indigene i pionieri iniziano a lavorare la terra che hanno faticosamente conquistato. La zona di Porto Franco è tutto sommato montagnosa; le poche pianure si trovano vicino al fiume e la foresta ricopre tutte le pendici dei monti quindi l’agricoltura è, almeno in questa fase iniziale, pressoché impossibile. La maggior parte dei coloni è di origine agricola e l’unico mestiere che tutti sanno fare è proprio quello del contadino quindi, inevitabilmente, la prima cosa che i pionieri iniziano a fare è proprio disboscare i terreni per fare posto alle coltivazioni.
Bisogna pensare che in quei tempi il fatto di disboscare la foresta vergine era visto dal Governo brasiliano come una vera benedizione: si riusciva a rendere produttiva una terra che fino ad allora non serviva a nulla e tutti i rischi legati a questa emancipazione erano presi proprio dai nuovi coloni. Proprio per questo, per incentivare la nascita di una nuova economia dove prima non c’era altro che foresta improduttiva il Governo in un primo tempo offriva a questi pionieri tutti gli attrezzi necessari allo scopo, le sementi ed anche qualche animale domestico il tutto affinchè anche in questo angolo sperduto riuscisse ad avviarsi una primordiale economia.
La legna tagliata viene inizialmente utilizzata per costruire le prime capanne di legno in cui si stabiliscono i coloni, i primi recinti e le prime proprietà ed è così che inizia a prendere forma il borgo primordiale di Porto Franco. Ovviamente non dobbiamo immaginarci un borgo come lo si può tipicamente intendere nell’Europa con le case tutte vicine tra loro, sicuramente ai suoi primordi Porto Franco doveva apparire come una fitta foresta in cui ogni tanto lungo il fiume si scorgevano delle piccole radure con una capanna in mezzo, un piccolo segno di civiltà in mezzo alla foresta selvaggia. Probabilmente le radure non erano nemmeno collegate da una rete di sentieri ma, al contrario la via fluviale era l’unica via di comunicazione tra un posto e l’altro.
Una volta creata la traccia primordiale del paese sicuramente viene realizzato anche il primo edificio che ha una funzione ben precisa: un luogo di culto! Un tempo la devozione e l’attaccamento religioso erano un valore assolutamente fondante e preponderante; come ha ben detto durante l’ultima festa bergamasca di Botuverà il nostro cugino Padre Alirio Pedrini, nipote di Joana Tirloni: “la fede era la forza degli emigranti”. La fede serviva per incoraggiarsi in mezzo alle difficoltà (e ben possiamo immaginare quali e quante siano state in questo primo periodo), per mantenere un contatto – anche se puramente spirituale – con i propri cari rimasti in Italia che venivano raccomandati alla cura ed alla pietà di Dio e per fermarsi un attimo e rinfrancarsi dalle fatiche e trovare lucidità nei momenti di incertezza quindi anche se nella comunità non era presente un prete si sarà sicuramente realizzato l’unico edificio di cui non si poteva fare a meno: una piccola chiesetta.
Probabilmente in questa piccola cappellina si sarà custodito solamente un crocefisso, magari realizzato in-loco ma questo era sufficiente per dare alla nostra gente un ulteriore senso di Comunità e non è da escludere che quello rappresentasse l’unico punto di aggregazione per i pionieri che con cadenze fisse e costanti vi si ritrovavano per pregare e ringraziare per gli scampati pericoli. Niente di più facile che il luogo scelto altro non sia che il luogo in cui tutt’ora (e da sempre, a memoria d’uomo) si trova la chiesa parrocchiale di Botuverà!
I pionieri, in questi primissimi tempi, iniziano anche a perlustrare ed addentrarsi nelle aree circostanti ed è soprattutto grazie alle impressioni che questi luoghi fanno agli esploratori che vengono scelti i nomi delle stesse località: Aguas Claras, Aguas Negras, Riberao do Ouro, Cedro ed altre località sono state appunto battezzate in questo modo proprio grazie alle prime impressioni che destavano ai coloni che le esploravano ed ancora al giorno d’oggi mantengono i nomi dati da questi connotati che diventavano immediatamente un tratto saliente fruibile da tutti.