CAPITOLO 2
2.5 La mente imprenditoriale

Com’era la vita a Porto Franco alla fine dell’ Ottocento? Sicuramente non era per niente facile! L’unico problema che credo proprio nessuno avesse a Porto Franco era la fame; il cibo non era eccelso ne tantomeno variegato ma non mancava. La natura selvaggia che circondava questo piccolo borgo posto in mezzo alle montagne da un lato rappresentava un ostacolo quasi insormontabile, dall’altro assicurava ai pionieri il sostentamento necessario per vivere; tutti avevano a disposizione la frutta offerta dalla foresta, la carne degli animali (si uccidevano e si mangiavano scimmie, serpenti e quant’altro oltre agli animali tipici da allevamento) e riuscivano a ricavare farine di grano o di manioca con cui preparare la “polenta” ed il “pane”. Osservando gli indigeni, i coloni si sono mossi cautamente ma sono arrivati a sperimentare anche pietanze decisamente strane come ad esempio il midollo di una particolare palma (detto palmito).

Facendo un’analisi generale si evince che oltre alle normali difficoltà che tutto il mondo incontrava in quei tempi qui in Brasile se ne aggiungevano molte altre: anzitutto le vie di comunicazione con il resto del mondo erano assolutamente primitive; non so quando è stata aperta la strada percorribile dai carri ma sicuramente la via che conduceva a Brusque per molti anni rimane poco più che un sentiero e la via di comunicazione più usata è il fiume. Si può quindi intuire quanto tempo ci impiegassero ad arrivare al paese tutte le merci necessarie ai vari abitanti.

L’unico dottore si trovava a Brusque quindi ogni qualvolta qualcuno si sentiva male o, più facilmente, aveva un infortunio/incidente aveva la sorte segnata! Immagino che, soprattutto nei primissimi tempi della colonizzazione i casi di intossicazione alimentare fossero abbastanza frequenti perché i pionieri dovevano istruirsi sulla natura che li circondava, tanto diversa da quella a cui erano abituati nella nativa pianura bergamasca e non era sufficiente osservare le abitudini degli indigeni perché gli stomaci nostrani non erano certo “preparati” per il cibo offerto dalla foresta. Dovevano capire cosa era commestibile e cosa invece non lo era e questo sicuramente avrà richiesto un pagamento di vite umane…

Le donne erano quelle che avevano la peggio in questa comunità arcaica e spesso morivano di parto anche perché, soprattutto nei primi anni, non era presente una levatrice. D’inverno capitavano le gelate ed i bambini venivano falcidiati dalle malattie respiratorie ma anche le febbri e le infezioni mietevano vittime indistintamente. Non era facile diventare vecchi in questo angolo di mondo!!

La natura stessa era già di per se stessa il primo elemento che giocava contro i coloni: il forte caldo del lungo periodo estivo (molto più lungo che il nostro) impediva la conservazione dei cibi e al contempo facilitava la contaminazione dell’acqua (ma questo non era un problema, di acqua fresca ce n’era in abbondanza) ma soprattutto un forte impatto lo avevano gli animali. Porto Franco sorgeva proprio in mezzo ad una foresta fitta che pullulava soprattutto di serpenti, molti dei quali erano velenosi.

Il bisnonno Emanuele raccontava ad esempio che vicino alla loro casa crescevano piante di “palmitos” di cui tutti (soprattutto il bisnonno) erano ghiotti ma non potevano avvicinarsi perché si annidavano i serpenti. La cosa a cui dovevano stare particolarmente attenti era impedire che questi entrassero in casa e per fare questo dovevano mettere gli specchi davanti alle porte ed alle finestre di modo che i serpenti, vedendosi riflessi nello specchio si paralizzavano e potevano essere catturati (ed eventualmente anche mangiati).

Dai racconti tramandati dalla zia Giuseppina Martinelli sappiamo anche che, durante un uscita in mezzo al mato uno dei figli di Alessandro – probabilmente Vittorio ma non ne abbiamo certezza – si imbatte in un grosso e pericoloso felino (forse un puma) che lo insegue per ucciderlo. Il giovane riesce miracolosamente ad arrampicarsi su una pianta ma siccome l’animale non desiste dalla sua idea gli tocca passare tutta la notte sveglio sulla pianta per paura di cadere a terra ed essere sbranato. Alle prime luci dell’alba Alessandro organizza una spedizione con i figli ed alcuni uomini della comunità; si dividono in gruppi e finalmente trovano il giovane ancora sulla pianta stremato dalla paura per la brutta avventura passata.

Si capisce bene quindi quali e quante difficoltà trovassero queste persone nella vita di tutti i giorni…. Senza contare che per rendere le cose ancora più “facili” a volte ci pensavano i “vicini di casa” non sempre accomodanti: i Bugri!!!

Tutte queste cose non scoraggiano di certo la gente di questa comunità che, a dispetto di tutto continua a crescere e prosperare. Nuovi emigranti arrivano di continuo e molti si spingono ancor più all’interno nel tentativo di fare fortuna sfruttando tutte le risorse che questo angolo di mondo può offrire.

Come già precedentemente detto, qualsiasi attività vogliano intraprendere gli emigranti si trovavano a dover partire tutti da un primo e fondamentale scoglio: per crearsi un loro posto devono disboscarlo dal fitto mato che ricopre la totalità dell’area e allo stadio iniziale la legna tagliata viene utilizzata dagli stessi pionieri per realizzare le case in cui vivere ed eventuali recinti per animali ma cosa fare di tutta la legna che in seguito si continua a tagliare?

Proprio a questo punto ad Alessandro viene l’intuizione che sarà alla base della sua fortuna e gli permetterà di evolversi velocemente dalla sua condizione di pioniere: si rende conto che dalla città di Brusque ma soprattutto dalla città portuale di Itajai vi è una costante richiesta di legno per assecondare il sempre più crescente fabbisogno della città, dell’area portuale e delle attività che fioriscono grazie ai commerci portuali.

La città di Itajai decisamente vive in funzione del suo porto, ogni giorno arrivavano navi cariche di immigranti e di generi commerciali quindi si può facilmente immaginare che l’economia sia in continua e forte espansione e la richiesta sia sempre alta.

Il bacino d’utenza di questo porto comprende anche grandi città che sorgono nell’entroterra come ad esempio Brusque e Blumenau da cui a loro volta dipendono tutti i centri e piccoli borghi che si vengono a creare e si sviluppano nell’entroterra grazie all’opera dei vari gruppi di emigranti i quali dipendono completamente dalle merci che arrivano proprio da questa stessa città quindi si può ben capire che il porto di Itajai rappresenta a pieno titolo il motore pulsante che fa girare l’economia, assicura la prosperità e garantisce la vita di una vastissima regione: dall’esterno arrivano al porto i prodotti industriali che verranno distribuiti agli emigranti e dall’interno giungono nel porto i prodotti che tutte le realtà locali producono.

Per garantire la funzionalità di tutta questa economia in fortissima crescita serve molta legna (sia per costruire le infrastrutture civili e commerciali sia per garantire la funzionalità stessa del porto) quindi la richiesta non fa altro che crescere e la città di Itajai verrà in breve tempo conosciuta come “porto da madeira = porto del legname”.

Alessandro coglie le potenzialità che può offrire un territorio come quello di Porto Franco in cui, come già detto, chiunque è obbligato a crearsi uno spazio nella fittissima foresta per fare qualsiasi cosa; per Alessandro la natura selvaggia di Porto Franco è il tipico caso in cui “non tutto il male viene per nuocere” e decide di sfruttare a suo favore quella che ai più appare come una scomoda necessità contro cui scontrarsi e così facendo decide di assecondare la richiesta della grande città portuale ed avvia la sua attività con le segherie ed il commercio di legname.

Ovviamente Alessandro non è il solo che ha l’intuizione di investire tutte le sue forze nel commercio del legname; può darsi però che sia il primo di Porto Franco a fare una simile cosa e proprio per questo riesce ad emergere e distinguersi tra tutti i pionieri della colonia.

Bisogna ammettere che soprattutto un tempo non era cosa così facile arrivare a scegliere di abbandonare l’unico mestiere che si sapeva fare e per il quale si avevano conoscenze sicure (nel caso di Alessandro fare il contadino) per intraprendere qualcosa di assolutamente nuovo e mai sperimentato prima quindi bisogna rendere merito ed onore ad una scelta decisamente coraggiosa. Ma come ha avuto inizio tutto questo?

Può darsi che proprio di fronte alla casa, lungo la sponda del fiume sorgesse la prima segheria aperta da Alessandro. Tutt’ora, come anche nella foto degli anni ’60 di fronte alla casa c’è un grande spazio aperto con ai lati dei capannoni quindi tutto fa pensare che all’epoca di Alessandro quello fosse il posto in cui la legna tagliata veniva accatastata per poi essere lavorata ed infine preparata per essere spedita in città sfruttando la corrente del fiume.

Vista panoramica di Porto Franco, nel cerchio rosso la casa Tirloni (fotografia - inizio anni ‘60)

Nei primi anni in cui inizia questa attività Alessandro è probabilmente insieme a poche altre persone ed il lavoro da fare è decisamente mastodontico. Le piante vengono tagliate e poi portate alla segheria per essere scortecciate e lavorate per ridurle alle dimensioni richieste dal mercato. Le grosse compagnie che acquistano in legno danno preferenza a pezzi meno voluminosi e di conseguenza più maneggevoli quindi la legna va lavorata parecchio prima di poter essere venduta e per fare tutto questo bisogna costruire infrastrutture non indifferenti.

La scelta del trasporto via acqua appare subito la più naturale ed economica quindi fin da subito si opta per questa soluzione per tutti gli spostamenti che bisogna far fare alla legna.

Anzitutto si provvede alla costruzione di segherie in cui i macchinari vengono mossi dalla forza dell’acqua poi si provvede alla costruzione di una rete di canalizzazioni che congiungendosi tra loro portano la legna tagliata fino alle segherie e da qui fino al rio Itajai-Mirim. Tutte queste canalizzazioni devono essere ben calibrate per garantire sufficiente forza motrice ai mulini che muovono i macchinari delle segherie ma devono anche essere ben regolamentate per garantire sufficiente portata d’acqua anche durante le stagioni di secca.

Dai racconti dei vecchi di Porto Franco si viene a sapere con precisione che il modo di accatastare la legna era ben preciso: una volta che la legna viene ridotta alle dimensioni richieste dal mercato vengono fatte pile di legna ciascuna formata da 24 travi ben legate tra loro che poi vengono fatte scivolare in acqua nel rio Itajai-Mirim; ognuna di queste pile viene poi legata ad altre simili fino a formare un gruppo di 8 pile e solo a questo punto tutta questa grossa catasta viene lasciata libera di essere spinta dalla corrente e trasportata fino alla città portuale di Itajai.

Molti sono i rischi che le persone devono affrontare per fare tutto questo lavoro; a partire dal taglio della legna nella foresta proseguendo poi negli inconvenienti della lavorazione ma la parte davvero pericolosa avviene proprio nel fiume: quando bisogna legare insieme le varie cataste bisogna stare nell’acqua e spesso capita che le funi si rompano e le assi di legna cadano rovinosamente in acqua travolgendo i malcapitati.

Il viaggio lungo il fiume non è poi meno pericoloso; per seguire le cataste ed essere pronti ad intervenire tempestivamente bisogna stare sulle cataste stesse quindi essere ancor più in balia dell’acqua del fiume. Soprattutto nella zona di Aguas Negras spesso si incorre nelle rapide del fiume oppure, nei periodi di secca capita che le cataste si blocchino piuttosto che in ogni momento si può rompere una fune ecc ecc.

Bisogna considerare anche il fatto che, per poter intervenire in caso di incidenti o pericolo ma anche solo per riuscire a governare nel fiume le cataste di legna (soprattutto nel tratto più tumultuoso del fiume da Porto Franco a Brusque) servono molte braccia quindi ogni volta che avviene una spedizione dal piccolo borgo partono almeno 10 persone. Arrivati a Brusque il viaggio diventa più facile tanto che bastano solo due persone per portare la legna fino al porto di Itajai.

La maggior parte della gente non sa nuotare quindi si può ben capire che ogni viaggio rappresenta un rischio altissimo e la vita di chiunque può venire in ogni momento interrotta.

Una volta giunti a destinazione e venduta la legna il gruppo deve affrontare il viaggio di ritorno a piedi fino a Porto Franco e dai racconti dei vecchi si sa che ci vogliono circa quattro o cinque giorni solo per questo viaggio quindi a conti fatti si sta via da Porto Franco per almeno una settimana. Il viaggio di ritorno serve anche per fermarsi a prendere eventuali provviste da portare al paese anche se c’è da credere che, almeno nei primi tempi, il grosso venisse portato direttamente via fiume con le canoe.

Possiamo ben cogliere quali e quanti siano i rischi in cui è incorso Alessandro in questa sua attività; all’inizio sicuramente è obbligato ad essere presente il prima persona a tutte queste fasi (una più rischiosa dell’altra) e solo in un secondo momento, quanto l’età inizia a salire e la sua attività è ben avviata potrà permettersi di demandare ad altri le fasi più pesanti e più rischiose di tutto questo processo. Ha sicuramente forza e coraggio da vendere!!!

Gli altri abitanti di Porto Franco intraprendono altre attività: la famiglia Maestri ad esempio si sa che ha una fornace per cuocere mattoni e tegole, altre persone si dedicano alla coltivazione dei campi e all’allevamento di bestiame, vi sono persone che costruiscono fornaci per la calce e cavatori che lavorano nelle miniere, si formano i più tradizionali mestieri come ad esempio i fornai, i carpentieri e, come in tutte le avventure pionieristiche, non manca la gente che cerca l’oro o le pietre preziose lungo i vari fiumi mentre altri ancora si specializzano in un mestiere insolito che li renderà famosi al punto tale che tutt’ora si parla di loro: i cacciatori di Bugri detti con voce locale “Bugreiros”!!!

Alessandro invece persevera con l’attività della segheria, diventa a tutti gli effetti un imprenditore e il suo investimento verrà, come detto, presto premiato da un ritorno economico talmente ingente da fare di lui l’uomo in assoluto più ricco di tutta questa zona. Alla fine della sua avventura brasiliana arriverà a possedere decisamente molte proprietà terriere utilizzate per sfruttare il legname per le sue segherie le quali diventeranno fin da subito una fonte di richiamo per molti emigranti che vengono a lavorare da lui. A distanza di anni le cronache saranno concordi nel dire che l’unico modo per fare soldi in questo angolo di Brasile era appunto quello di entrare nel commercio del legno.